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domenica 1 giugno 2014

E CHI SI FIDA DI COSTORO???



tratto da tempi.it 25 Maggio 2014 di Rodolfo Casadei

I veri colpevoli della crisi europea? «La Merkel e le sue colf di Bruxelles», che scaricarono sui contribuenti i debiti accumulati dalle banche speculando sui paesi indebitati. Parla Philppe Legrain, ex analista al servizio della Commissione Ue


«La causa principale della crisi sono stati gli sconsiderati prestiti di banche tedesche e francesi al mercato immobiliare spagnolo e a quello irlandese, ai consumatori portoghesi e al governo greco. Ma insistendo che fossero i contribuenti greci, irlandesi, portoghesi e spagnoli a pagare interamente per gli errori di quelle banche, la cancelliera Angela Merkel e le sue colf a Bruxelles hanno sistematicamente privilegiato gli interessi delle banche tedesche e francesi al di sopra di quelli dei cittadini dell’eurozona». L’autore di questa frase, apparsa sul New York Times del 22 aprile scorso, è un ex consulente di Manuel Barroso: Philippe Legrain, economista britannico già autore di un fortunato libro sulla globalizzazione (Open World). Non un consulente qualsiasi: dal febbraio 2011 al febbraio 2014 è stato il principale consigliere e il capo del team di analisti del Bureau of European Policy Advisers al servizio del presidente della Commissione Europea. Alla fine Legrain se ne è andato perché i suoi consigli non venivano seguiti. Tempi lo ha raggiunto per un’intervista esclusiva.





















Lei non è un euroscettico e ha messo in guardia dai partiti populisti alla vigilia delle elezioni europee. Tuttavia nel suo libro European Spring e in vari articoli ha denunciato che i veri colpevoli della crisi finanziaria dell’eurozona non sono i debitori (i privati e i governi dell’Europa meridionale e dell’Irlanda), ma i creditori tedeschi e francesi, e che la ricetta di Bruxelles-Francoforte-Berlino per la soluzione della crisi ha portato alla depressione economica e alla disoccupazione di massa perché gli interessi delle banche tedesche e francesi sono stati anteposti a quelli dei cittadini dell’eurozona. Si spieghi.

È perché voglio che l’Unione Europea e l’euro abbiano successo che sono così critico dei terribili errori che sono stati compiuti durante la crisi. Negare che sono stati fatti degli errori, fingere che l’Europa sia sulla strada giusta e insistere che chi non è d’accordo è un illuso, spinge la gente contro l’Europa e incoraggia gli estremismi. Per cominciare a mettere a posto le cose e per riconquistare consenso nei riguardi dell’Unione Europea, è necessario essere assolutamente onesti circa quello che è andato storto.
Ovviamente i debitori sono in parte responsabili degli errori compiuti negli anni della bolla fino al 2007. Ma una maggiore responsabilità ricade sui banchieri, pagati profumatamente per la loro presunta capacità di valutare i rischi, così come sui presidenti delle banche centrali, i regolatori, i supervisori e i politici che avrebbero dovuto limitare gli eccessi finanziari. E quando le bolle sono scoppiate e le banche sono state sul punto di fallire, i governi le hanno salvate con i soldi dei contribuenti.
Quando il debito pubblico della Grecia è diventato insostenibile nel 2010, i responsabili politici fecero un errore ancora più grosso. Per evitare perdite alle banche tedesche e francesi, hanno finto che una Grecia insolvente stesse attraversando difficoltà di finanziamento temporanee. E con la finzione che la stabilità finanziaria dell’eurozona fosse a rischio, decisero di infrangere la base legale su cui l’euro era fondato, cioè la clausola del divieto di salvataggio fra stati, e di salvare i creditori della Grecia. Improvvisamente i cattivi prestiti delle banche private divennero obbligazioni fra governi.
Anche in Irlanda, Portogallo e Spagna i responsabili politici dell’eurozona insistettero che fossero i contribuenti locali a pagare per gli errori delle banche straniere. Così una crisi che avrebbe potuto unire l’Europa in uno sforzo collettivo per tenere a freno le banche che ci avevano messo nei guai ci ha invece divisi, aizzando i paesi creditori – principalmente la Germania – contro quelli debitori, mentre le istituzioni dell’Unione sono diventate strumenti dei creditori per imporre la loro volontà ai debitori.
Gli errori dei responsabili politici dell’eurozona hanno anche causato una lunga e profonda recessione, non inevitabile, fra il 2010 e il 2013. Dal caso della Grecia hanno erroneamente concluso che l’intera eurozona si trovava di fronte ad una crisi fiscale, e mentre hanno evitato di affrontare la crisi bancaria e l’eccessivo debito privato, hanno optato per un’austerità collettiva ed eccessiva che ha depresso la domanda e ha avuto l’effetto perverso di peggiorare le finanze pubbliche. Hanno anche alimentato il panico, con gli investitori che si chiedevano quale paese sarebbe crollato dopo la Grecia, quando la Merkel ha cercato di correggere il suo errore greco a Deauville ma ha peggiorato le cose, e quando lei e Sarkozy più tardi hanno minacciato di costringere la Grecia a lasciare l’euro. E mentre il panico lacerava l’eurozona, i responsabili politici chiedevano sempre più austerità.
Nel caso dell’Italia, le cui banche non si sono esposte durante gli anni della bolla, la sua attuale situazione è in gran parte dovuta all’imposizione di un’eccessiva austerità in risposta a un panico creato a Berlino, Bruxelles e Francoforte, così come dal fallimento di successivi governi di attuare riforme per aumentare la crescita della produttività. Per quel che vale, uno studio realizzato da un dirigente della Commissione europea utilizzando un modello da lui creato, conclude che l’austerità collettiva ed eccessiva finora è risultata nella perdita cumulativa di 10 punti percentuali di Pil nell’eurozona: nessuno è stato chiamato a rispondere di questo.
Infine, nell’estate del 2012 la Bce ha arrestato il panico, l’austerità è stata ammorbidita e le economie stabilizzate. Pensate quanta miseria ci saremmo risparmiati se la Bce avesse agito prima e se i responsabili politici non avessero imposto tanto rigore. E nel frattempo la crisi bancaria è rimasta senza soluzione.

Una decurtazione sul valore nominale del debito greco comunque alla fine è stata imposta nel 2012, e si parla di estendere i termini per la restituzione del debito greco a 30-50 anni, pure con tassi di interesse abbassati. Tutto ciò equivale a una ristrutturazione-cancellazione del debito. O ci sbagliamo?
Sì, i responsabili politici dell’eurozona furono infine costretti ad ammettere che i debiti della Grecia erano troppo grandi e a ristrutturarli nel 2012, benché la Commissione europea e la Bce per lungo tempo abbiano combattuto accanitamente questa conclusione: ricordatevi quello che dicevano a quel tempo Olli Rehn, Trichet e Bini Smaghi. Fra i due salvataggi dei creditori della Grecia nel 2010 e nel 2012, le banche tedesche, francesi e di altri paesi furono in grado di ridurre di parecchio la loro esposizione in titoli greci, mentre venivano loro interamente ripagati quelli che erano giunti a scadenza durante quel periodo. Però la decurtazione fu troppo piccola per rendere sostenibile il debito greco, in gran parte perché la Bce insistette che la ristrutturazione doveva essere “volontaria”, mentre il parlamento greco avrebbe potuto imporre perdite ben più grandi con un semplice tratto di penna.
Inoltre, al fine di recuperare i loro prestiti alla Grecia, i responsabili politici dell’eurozona le imposero un’austerità così brutale che la sua economia ha sofferto una recessione più lunga e più profonda di quella della Germania negli anni Trenta. Il peso del debito congela l’investimento privato, deprimendo ulteriormente la crescita. Alla fine il debito della Grecia dovrà essere cancellato un altro po’. A quel punto le perdite ricadranno sui contribuenti dell’eurozona, compresi voi italiani, anziché sulle banche straniere che hanno fornito alla Grecia la corda per impiccarsi. Questo non è solo ingiusto: è politicamente perverso. Perché i contribuenti tedeschi ora accusano quelli greci di prendersi i loro soldi, quando in realtà dovrebbero incolpare Angela Merkel per aver approvato il salvataggio occulto delle banche tedesche attraverso i prestiti a una Grecia insolvente.

Lei critica il salvataggio delle banche nel contesto della crisi del debito greco, ma se le avessimo lasciate fallire ci avrebbero rimesso anche tanti piccoli risparmiatori.
Quando le banche falliscono, dovrebbero essere ristrutturate con una procedura ordinaria che fa sopportare i costi ai loro creditori, mentre vengono garantiti i piccoli depositi. È quello che si fa negli Stati Uniti attraverso la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic). È quello che ha fatto la Danimarca nel 2011, senza che cascasse il mondo. Ed è quello che accadrà quando la nuova normativa dell’Unione Europea sulla vigilanza bancaria entrerà in vigore nel 2016.

Lei è molto critico dell’unione bancaria recentemente approvata. L’ha definita «finta» e modellata sugli interessi tedeschi. Si spieghi.
La Germania acconsentì a malincuore alla proposta di un’unione bancaria in occasione del Consiglio europeo del giugno 2012, quando il panico stava lacerando l’eurozona e Monti, Hollande e Rajoy unirono le forze per chiedere una diversa risposta alla crisi. Ma l’intervento di Draghi per salvare l’euro allentò la pressione su Berlino, che cominciò immediatamente a fare marcia indietro sui suoi impegni. Al fine di mantenere il controllo sulle sue banche spesso pericolanti a causa dei crediti inesigibili accumulati prestando nell’Europa meridionale durante gli anni della bolla, Berlino ha svuotato l’unione bancaria della sua sostanza. La Bce eserciterà la sua vigilanza solo sulle 130 banche maggiori: la maggior parte delle banche tedesche sono piccole. L’ente supervisore tedesco, Bafin, esercita la vigilanza su migliaia di banche e di altre istituzioni finanziarie; dunque l’argomento secondo cui la Bce non potrebbe farlo è pretestuoso.
E la pretesa che le piccole banche non rappresentino un rischio sistemico è altrettanto pretestuosa: si veda il caso delle cajas spagnole. Il meccanismo di risoluzione unico per la ristrutturazione e la chiusura delle banche è incredibilmente complesso, lascia un diritto di veto nelle mani dei governi nazionali e i fondi collettivi che alla fine saranno a sua disposizione sono limitati: solo 55 miliardi di euro. In pratica i governi possono continuare a sostenere le “loro” banche se hanno i soldi per farlo. La Germania lo fa, Cipro non può.

La crisi ha prodotto l’accentramento a Bruxelles delle politiche fiscali nazionali. A ogni cambio di governo Olli Rehn va in tv e ammonisce: «Mantenete gli impegni presi dai vostri predecessori». Lei critica tutto ciò, ma da Bruxelles rispondono che senza questo controllo si ripeterebbero le crisi del debito e i default che si sono verificati.
È un mito che il Patto di stabilità e crescita abbia fallito: l’unico fallimento è stato la mancata individuazione delle bugie greche. La crisi è stata causata principalmente da fallimenti nella governance finanziaria dell’eurozona, non nella governance fiscale. Pensiamo al caso dell’Italia: la Commissione europea approvò la sua ammissione all’euro nel 1997, quando il debito pubblico era il 122 per cento del Pil. Nel decennio seguente il debito è diminuito di 19 punti percentuali. La ragione per cui i rendimenti dei buoni del Tesoro italiani si sono impennati nel 2011-2012 non è l’eccesso di spesa pubblica, ma il panico sistemico causato dagli errori dei responsabili politici dell’eurozona.
Ricordatevi che la sostituzione di Berlusconi con Monti e la deriva di quest’ultimo verso un’eccessiva austerità su ordine dell’Unione Europea non ridusse i rendimenti dei titoli. Fu la Bce che mise fine al panico, dopo avere per lungo tempo affermato che non aveva i poteri legali per farlo.
L’imposizione di una camicia di forza fiscale è l’eredità della decisione sbagliata del 2010 di salvare le banche tedesche e francesi che avevano prestato a una Grecia insolvente, anziché affidare il caso al Fondo monetario internazionale e cancellare i debiti. A causa del fatto che la Merkel infranse la regola che vietava agli stati di garantire il debito di un altro stato, su cui Helmut Kohl aveva giustamente insistito al momento della firma del trattato di Maastricht, i contribuenti tedeschi improvvisamente temettero di dover garantire per i debiti altrui. Perciò la cancelliera chiese un controllo molto maggiore sui bilanci degli altri stati, e la Commissione fu ben felice di accaparrarsi nuovi poteri. Questo è economicamente pericoloso, perché i paesi che condividono una valuta hanno bisogno di maggiore, non minore, flessibilità fiscale.
Ripeto, tutto ciò è politicamente perverso. Perché, come lei dice, quando gli elettori in un paese bocciano il governo uscente, Olli Rehn va in tv e insiste che il nuovo governo deve conformarsi alle politiche fallimentari di quello vecchio. Che un burocrate di Bruxelles, lontano, non eletto e che quasi non deve rendere conto a nessuno possa negare agli elettori le loro legittime scelte intorno a tasse e spesa pubblica, allontana la gente dall’Europa. E se il voto per i partiti principali non porta a nessun cambiamento, non c’è da meravigliarsi che la gente voti gli estremi.

Perché la moneta comune europea non funziona, tranne che in Germania e pochi altri paesi? Dobbiamo tenercela o abbandonarla? Come dovrebbe funzionare l’unione monetaria?
Al posto di un’eurozona modellata sui miopi interessi della Germania creditrice, abbiamo bisogno di un’unione che funzioni per tutti i suoi cittadini. Le banche “zombie” devono essere ristrutturate, il debito insostenibile (sia privato sia pubblico) deve essere cancellato. È necessario più investimento, insieme a riforme per aumentare la produttività e quindi i salari. Il meccanismo per la ristrutturazione delle banche fallite deve essere indipendente. In futuro, per evitare il panico, il ruolo della Bce come prestatore di ultima istanza deve essere formalizzato, e con esso una maggiore discrezionalità di bilancio per i governi: l’unico condizionamento deve essere rappresentato dalla disponibilità dei mercati a prestare a loro e ultimamente dalla possibilità della bancarotta.

Lei invoca una “Primavera europea” per tirare fuori l’Europa dalla crisi dell’eurozona. A parte il fatto che le Primavere arabe non sono state esattamente un successo, perché un cambiamento avrebbe bisogno di una specie di insurrezione popolare?
Quando parlo di Primavera europea, intendo un rinnovamento economico e politico. Esso richiede una forte leadership – con un po’ di fortuna Matteo Renzi potrebbe offrirla all’Italia –, nuovi politici con nuove idee e un movimento dal basso per il cambiamento.



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