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giovedì 17 maggio 2012

OSCAR GIANNINO:"SONO MOLTO, MOLTO PREOCCUPATO DELL'ARIA CHE TIRA"





Come e perché si debba resistere all’ariaccia filostatalista che soffia in Italia e in Europa.
Pochi da noi sanno che Milton Friedman, l’ortodosso liberale nemico delle tasse e ispiratore di Ronald Reagan, lavorando da giovane economista alle Agenzie Federali istituite da Rossevelt era un keynesiano ortodossissimo. E che si deve a lui, l’imposizione fiscale alla fonte per i lavoratori dipendenti che l’America adottò nel 1943, per evitare il baratro comunque avanzante dei suoi conti pubblici. Prima della “sua” riforma, Milton con la moglie Rose pagava 119 dollari di tasse l’anno, meno del 2% dell’imponibile malgrado appartenesse al 2% di americani più ricco. Dopo ne pagò 1.704, passando a un’aliquota del 23%. Pensate a quante decine di punti in più di pressione fiscale da quel 23% – che servì per far pagare ai più ricchi americani una bazzecola coma la seconda guerra mondiale – siamo arrivati nell’Italia di oggi. E capirete perché sono molto ma molto preoccupato dell’aria che tira.

E’ un’aria che confonde la protesta di mezza Europa contro la recessione, levatasi con forza dalle urne greche, francesi e italiane, con la difesa della spesa pubblica, e anzi con il suo ulteriore aumento. E’ un’aria potentemente alimentata, vezzeggiata, ispirata e imboccata dalla grande stampa vicina alla sinistra statalista, dal più delle èlite accademiche avverse al mercato, dai vecchi partiti della sinistra (e talora anche di destra, come nel nostro Paese) e dai neopopulismi di destra, di sinistra e di centro che non chiedono di meglio, che indicare l’odiato e famigerato nemico tedesco come il vero responsabile dell’impoverimento dei deboli e della frattura ormai imminente dell’euro.

Palle, per quanto mi riguarda. Palle perché l’eccesso di spesa, deficit e debito pubblico è colpa delle nostre classi politiche nazionali, non di tedeschi. Nel caso dell’Italia, destra, sinistra e tecnici hanno suonato la stessa solfa. Più spesa e più tasse, ogni volta la scusa della congiuntura e delle responsabilità ereditate dai predecessori era buona per continuare sulla stessa via. Una via alla lunga – ed è lunga eccome, la strada intanto percorsa dalla spesa corrente e dalla rapina fiscale nel nostro paese – assolutamente suicidaria.

Non solo palle, ma palle pericolose. In sintesi estrema, e come tutte le sintesi estreme dunque con un eccesso di semplificazione, la politica su entrambe le rive dell’Atlantico, in America e in Europa, non ha affatto voluto e saputo sottoporre l’intermediazione finanziaria alla profonda revisione di criteri prudenziali e di vigilanza che si rendeva necessaria vista l’origine della crisi, per superare un mondo in cui ogni banca si elabora il suoi modelli di RWA – asset pesati per i rischio - e si finisce così per avere megamostri i cui attivi sono multipli del Pil e soprattutto a rischio di illiquidità erratica.

Ma in cambio di esser rimasti prigionieri del sistema bancario ombra e di creazione di liquidità a trilioni sottratta alle banche centrali – che pena, sentire Obama dire “riformiamo le banche!” dopo i miliardi persi da JpMorgan sui derivati, ma perché non era in carica lui quando il Congresso ha approvato il Dodd-Frank Act? – la politica chiede per sé lo stesso trattamento: il debito pubblico deve crescere ancora, la spesa in deficit è più che mai necessaria, le tasse non bastano mai.

Si sommano due errori capitali: il primo sull’instabilità dell’eccesso di consumo privato finanziato debito, il secondo sull’instabilità dell’eccesso di consumo pubblico finanziato anch’esso a debito. Niente di buono può venire da nessuno dei due errori.

Il fatto molto negativo è che, a distanza di anni dall’inizio della crisi, ancora non abbiamo imparato a chiamare i due problemi col proprio nome. Purtroppo, anche in questo caso la responsabilità preminente non è dei banchieri per il primo errore non riparato, né dei tedeschi per il secondo. E’ della politica, dei regolatori pubblici dei maggiori Paesi avanzati, insomma dello Stato. E di chi crede in lui – se è in buona fede – o dichiara di credere in lui per di lui in realtà servirsi: sia esso un politico, un dirigente pubblico, un dipendente pubblico, un fornitore pubblico, un corruttore pubblico, un finto invalido… E via proseguendo fino a contarne nel nostro Paese molti milioni, perché lo Stato intermedia il 60% del Pil “legale” e regolamenta pesantissimamente tutto quello che resta, e dunque a beneficiarne in maniera spesso discrezionale sono in tantissimi, molti più dei 3,8 milioni di suoi dipendenti e familiari, e delle centinaia di migliaia che campano di politica, nei 9.100 soggetti che compongono la PA italiana e nelle migliaia di società che essa controlla.

Non è affatto facile, mantenere i nervi saldi e continuare a usare argomenti puramente razionali, quando dall’altra parte la difesa dell’impunità dello Stato, nel contrarre debiti e levare tasse crescenti senza pagare i propri debiti commerciali né i crediti fiscali, si unisce a un vero e proprio coro di patacche intellettuali d’alto conio. Impazzano i Paul Krugman che si sentono Keynes e dunque, come questi dal New York Times proponeva a Roosevelt di triplicare il Pil se solo avesse fatto più dell’8,5% di deficit sul Pil l’anno, allo stesso modo quegli attacca Obama perché di deficit non ne fa abbastanza e insuffla gli europei dicendo che ha ragione chi respinge ogni rigore. Piacciono gli Stglitz, e i tanti che ammantano di filosofia postfrancofortese ed etica amartiasenniana accuse contro la tirannia quantitativa di chi vuole abbattere il debito pubblico. Caduti i regimi comunisti che tanto piacquero agli allievi di Keynes come Joan Robinson Piero Sraffa e Richard Khan, la difesa dello statalismo sociale europeo è l’ultima e insieme nuova frontiera per continuare a respingere la validità dell’economia di mercato basata sulla concorrenza. E per continuare a negare che le crisi di grande instabilità del capitalismo si devono all’eccesso di investimento durante i boom precedenti – eccesso fomentato da debiti pubblici e da regolatori monetari corrivi alla politica che di frenate stabilizzanti non vuol mai sentir parlare – non alla penuria di investimenti quando la bolla esplode, e bisogna allineare i valori anche attraverso fallimenti – di banche come sovrani, quando necessario, mica solo di imprese come avviene da noi in Italia ormai a decine di migliaia, per colpa dello Stato.

Mi chiedo talvolta se non siamo, io e quei pochi come me, pazzi noi a pensarla così, visto che da Repubblica che rincorre Krugman al Corriere – che rincorre la Gabanelli!! – dalla Stampa al Sole24 ormai di fronte all’eurocrisi sempre più esplosiva tutti marciano allineati dietro i pifferai dello Stato. Al massimo se la prendono coi privilegi della Casta e con i soldi in tasca ai partiti – per carità: uno schifo – ma nessuno rompe davvero le scatole a Monti intimandogli che – ci sia l’euro o no, è uguale – di quei 700 miliardi di spesa pubblica corrente almeno 100 possono sparire in 3 anni senza effetti recessivi, se al contempo li retrocediamo all’Italia legale abbattendogli le tasse, perché per abbattere il debito pubblico non c’è bisogno di dissanguare gli italiani ma bisogna che lo Stato ceda del suo patrimonio.

Keynes era terrorizzato alla fine della seconda guerra mondiale, convinto com’era che si sarebbe scatenata una Grande Depressione, smontando la grande macchina pubblica messa in piedi seguendo i suoi consigli. Sbagliava. Non avvenne neanche per conseguenza di aver respinto la sua proposta di una moneta unica mondiale. Mercato e dollaro hanno fatto delle potenze sconfitte dei giganti economici. Hanno moltiplicato per 6 volte la popolazione terrestre ma per 10 la sua ricchezza. E hanno abbattuto di cinque sesti la frazione di terrestri che vive ai confini della fame nera.

Chi difende Stato e collettivo nega tutto questo, dice che mai come oggi il mondo è stato diviso e ingiusto, mai più di oggi ha pesato la diseguaglianza, mai come oggi mercato e concorrenza sono falsi idoli.

Sofferenze acute di reddito e patrimonio esistono eccome! Lo testimoniano i disoccupati che salgono come migliaia sono i fallimenti d’impresa. Ma è lo Stato, ad averne la peggior responsabilità: per come è organizzato, per quanto pesa, per come prende e non dà, per come si dà ragione da solo con un diritto discrezionale solo a sé favorevole.

Bisogna resistere, alla presa – che è forte, nella gente e nel dibattito pubblico – di tanta demagogia e di tanto interessata apologia statalista. Per almeno due buone ragioni. La prima è che il motore dell’emancipazione è stata la produttività, e la produttività è conseguenza e possibile solo nell’economia di mercato basata sulla concorrenza. La seconda è che la libertà stessa coincide con l’economia di mercato, regolata dalla legge e dalle istituzioni del mercato, ma tutto ciò nulla c’entra ed è anzi vittima della inaccettabile restrizione della libertà, conseguenza dello stesso Stato onnipotente. Che ha lasciato fare alle banche ciò che intende fare anche lui, cioè troppi debiti illiquidi.

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