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martedì 18 ottobre 2011

I COPTI IN EGITTO, PERCHE' IL MONDO OCCIDENTALE IGNORA LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI??





Tarek Heggy

di Tarek Heggy
12-10-2011


L'autore [nella foto], noto intellettuale egiziano amante della libertà vera per tutti, è da sempre uno dei più strenui difensori della minoranza copta. Questo suo testo, scritto originariamente nel 2007, è ancora attualissimo. E profetico.
Se fossi un copto infrangerei i cieli d’Egitto e del mondo con le mie grida denunciando il clima di oppressione in cui i Copti egiziani vivono oggi.
Se fossi un copto comunicherei al mondo intero le ingiustizie che molti copti hanno subito a partire dal 1952 e hanno impedito loro di occupare ruoli amministrativi e politici che meritano.
Se fossi un copto griderei con tutto il fiato in gola contro le enormi ingiustizie che fanno sì che io paghi tasse che vengono poi versate dallo Stato ad al-Azhar che non ammette i copti in nessuna facoltà.
Se fossi un copto esprimerei tutta la mia rabbia perché devo pagare tasse usate per costruire decine di moschee quando lo Stato egiziano non ha mai pagato una lira per la costruzione di una sola chiesa a partire dal 1952, con l’unica eccezione di una donazione attuata 40 anni fa dal Presidente Nasser per la costruzione della cattedrale di san Marco ad Abbaseya.
Se fossi un copto leverei la voce per l’assenza di un solo copto in molti consigli legislativi nell’Egitto contemporaneo.
Se fossi un copto scriverei un articolo dietro l’altro per descrivere il modo in cui i mezzi di informazione ignorano le mie esigenze e le feste religiose come se la popolazione copta in Egitto non esistesse.
Se fossi un copto farei sapere al mondo intero che la storia copta non è debitamente considerata nei curriculum scolastici egiziani e che lo studio della lingua araba a scuola non consiste più nello studio di testi letterari, poesie, romanzi, drammi e racconti brevi, bensì nello studio della sacra scrittura islamica che viene giustamente insegnata nelle classi con studenti musulmani.
Se fossi un copto avrei mobilitato il mondo intero per fare notare le difficoltà che i copti hanno per ottenere il permesso a costruire una chiesa [con i propri fondi non con i proventi delle tasse che loro stessi pagano].
Se fossi un copto porterei all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale i commenti oltraggiosi fatti da alcuni scrittori musulmani sui copti, quali il loro convincimento che i copti non devono assumere il governo pubblico, che devono pagare la gizya e che non devono servire nell’esercito. Tradurrei gli scritti oscurantisti quali il testo assurdo del Dr. Mohamed Emara, finanziato da al-Azhar, il cui finanziamento proviene dalle entrate fiscale, comprese quelle pagate dai copti, che sono vilipesi in libri pubblicati a spese dello stato.
Se fossi un copto avvierei una campagna sia interna sia esterna in cui si chiede l’eliminazione della voce "religione" dalla carta d’identità egiziana. Perché mai una persona che vuole a vere a che fare con me deve sapere la mia religione?
Se fossi un copto avvierei una campagna contro la burocrazia egiziana che ha consentito alla legge dello statuto personale per non musulmani di restare chiusa in un cassette per quasi un quarto di secolo, facendo sì che i copti la chiamino scherzosamente la legge del disastro personale invece di legge dello statuto personale (in arabo statuto si dice ahwal, ma se la lettera h viene pronunciata gutturalmente il significato diventa disastro).
Se fossi un copto farei sapere al mondo intero che la questione copta in Egitto è solo una delle manifestazioni di una forma mentale che è diffusa in questa regione del mondo e chiamerei l’umanità intera a costringerla a ritornare sui propri passi e abbandonare questo cammino oscuro e pericoloso.

Traduzione dall’arabo di Valentina Colombo.

Il testo è stato raccolto nel volume di Tarek Heggy, 
Le prigioni della mente araba, trad. it., Marietti, Milano 2010.



Persecuzioni contro i Cristiani in Egitto

di Elisabetta Galeffi 11-10-2011
«Il militare che giaceva a terra e che diceva che sono stati i copti a iniziare gli scontri» - quelli che il 9 ottobre  hanno causato la morte di 24 cristiani copti e il ferimento di altri 200 per le strade de Il Cairo -, «quel militare mentiva. A sparare per primo sulla manifestazione dei cristiani è stato l’esercito. Nella capitale egiziana tutti lo sanno e lo dicono. La televisione di Stato ha trasmesso un’intervista taroccata: anche i musulmani onesti lo pensano». A parlare è una vecchia conoscenza cairota, un funzionario di una società commerciale internazionale, buona cultura e ottima conoscenza - anche per motivi di lavoro - degli attuali problemi del Paese. Chiede di restare anonimo e avvisa che d’ora in poi comunicare con lui diventerà più difficile: è infatti un egiziano cristiano di rito copto e quindi ha paura.

Alla manifestazione lui non è andato. Vi si era invece recata la sorella con due dei suoi figli. «Oggi anche andare a protestare pacificamente per le strade de Il Cairo è una follia - commenta -, non un atto di coraggio. Perché ormai le strade della città non sono più sicure per nessuno, nemmeno per i musulmani. Ci sono molte persone che non hanno più né cervello né un minimo di coscienza, e gente del tutto normale gira per le strade armata».

«Le strade sono infestate da vagabondi e delinquenti», precisa. «Solo loro adesso si muovono liberamente. Stamattina ho preso il taxi di un amico musulmano e lui mi ha raccontato che i suoi figli hanno paura ad andare a scuola la mattina».

La fine di Hosni Mubarak non c’entra nulla con questa escalation di terrore, il germe dell’odio non trovava ostacoli neppure sotto il regime dell’ultimo “faraone” d’Egitto. Il nostro amico è sicuro di quanto sostiene. Il numero dei musulmani estremisti è cresciuto con l’aumento della povertà e della corruzione del Paese, e sono questi i motivi per cui Mubarak e la sua famiglia hanno perso il potere. Le violenze contro i copti erano già una vera e propria persecuzione di una minoranza religiosa prima della rivoluzione del 25 gennaio; e non per motivi religiosi, ma solo di potere e di denaro.

«Le masse, cioè i poveri spiantati e vagabondi, musulmani o no che siano ma senza cultura, per due soldi sono pronti a commettere qualsiasi reato gli si chieda», aggiunge. «Anche  le truppe dell’esercito sono sottopagate. Far fuoco su chi si desidera eliminare dalla nostra società è per loro un modo di sopravvivere grazie a qualche extra. Non è un problema di religione», insiste; «È solo una questione di potere. In genere i copti sono un segmento della società egiziana più colta, con un lavoro migliore».

Insomma, in Egitto starebbe ripetendosi per i copti quanto già successo agli ebrei in Europa o agli armeni in Turchia. La religione è una scusa utile a colpire una minoranza, che ha fatto strada nella società in cui vive da secoli. In più, nell’Egitto di oggi i copti sono una minoranza liberale, che vuole una democrazia capace,  dopo “rivoluzione”, di assicurare, finalmente, uno Stato di diritto per tutti i cittadini senza eccezioni.

«Credo - dice - che queste sommosse mirino, anzitutto, a far fallire le prossime elezioni politiche, fissate per il 28 novembre. Ci sono estremisti religiosi che sono contro tutti, persino contro alcuni dei loro correligionari. Per questo le maggiori autorità del mondo musulmano egiziano non smettono di richiamare i propri fedeli all’unità. Adesso la festa del venerdì è chiamata festa dell’unità dei musulmani».

Ora il nostro interlocutore è un fiume in piena. Racconta di come lo stesso ambiente salafita - che per i cronisti occidentali costituisce già, da sempre, la frangia più estrema dell’ultrafondamentalismo musulmano – vi sarebbe chi cerca di dare vita a nuclei ancora più fanatici animati da visione dell’islam letteralmente insensata e folle. «Ci sono – specifica - musulmani che credono che anche solo vestirsi all’occidentale sia un peccato da perseguire e così girano per i piccoli villaggi dell’Egitto, dove sono tutti poverissimi, e fomentano l’odio. Avete mai visto quegli uomini che hanno una macchia nera nel centro della fronte? Sono quelli  che pregano sbattendo continuamente la testa contro un sasso o una parete dura, fino a che non gli rimane il segno, indelebile, degli urti. Dimostrano così la loro devozione».

E ancora: «Durante la manifestazione, all’inizio della sparatoria, mia sorella è riuscita a rifugiarsi dentro il primo albergo che ha trovato. Vi è rimasta fino a notte, riuscendo poi a tornare a casa. Questi estremisti rifiutano la libertà e combattono per impedire agli egiziani di raggiungerla. E i recenti episodi di sangue dimostrano quanto, nell’esercito e nei vertice del potere egiziano attuale, come però avveniva pure sotto Mubarak, vi siano molte forze e molti denari che non vogliono una svolta di libertà per il nostro Paese».

L’intellettuale egiziano Tarek Heggy, intervistato da La Bussola Quotidiana qualche mese fa, sostiene la medesima cosa nel suo libro Le prigioni delle menti arabe (Marietti, Milano 2010): la guerra di religione in Egitto avrebbe aumentato i propri proseliti con l’arrivo dei petroldollari, esattamente come in molti altri Paesi mediorientali.

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