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mercoledì 9 marzo 2011

PER FESTEGGIARE I 150 ANNI RISCOPRIAMO IL RISORGIMENTO:CESARE BALBO UOMO DI SANI PRINCIPI,DOVE LI TROVIAMO OGGI POLITICI COSI' ?




Cesare Balbo





Balbo, l'Unità senza anticlericalismo


di Lorenzo Carlesso
05-03-2011

Uomo di pensiero, Cesare Balbo fu tra i principali esponenti del moderatismo italiano. Dai suoi scritti trassero ispirazione i leader della classe dirigente liberale, tra cui Cavour che trovò in Balbo un punto di riferimento per il suo programma. 



Cresciuto all’interno di un ambiente familiare caratterizzato da interessi culturali e idee liberali, il giovane Cesare seguì il padre, Prospero Balbo, ambasciatore del Regno di Sardegna, costretto all’esilio dopo l’occupazione francese del Piemonte a seguito della discesa di Napoleone in Italia. Rientrato a Torino, Balbo proseguì gli studi in forma privata e fondò con un gruppo di amici l’Accademia «dei Concordi». All’interno del circolo venne in contatto con gli ideali patriottici ed elaborò inoltre le prime tesi del successivo movimento neoguelfo. Costretto ad entrare nell’amministrazione napoleonica, prestò servizio a Firenze al seguito del generale Jacques François Menou, governatore generale della Toscana. Successivamente fu trasferito prima a Parigi come auditore al Consiglio di Stato e poi a Lubiana, dove lavorò nell’amministrazione del nuovo dipartimento illirico. 


Dopo la caduta dell’impero napoleonico entrò a far parte dell’esercito piemontese, prestando servizio prima a Madrid, al seguito del padre reintegrato nella carica di ambasciatore, e poi a Genova. La carriera del padre, culminata con la nomina a ministro degli Interni, consentì a Cesare di assistere da vicino alle convulse giornate dei moti del 1821. Schierato a favore di una riforma liberale dello Stato, Prospero Balbo chiese all’erede al trono Carlo Alberto di promulgare la Costituzione. La richiesta, prima accolta e poi sconfessata dal principe su ordine del sovrano Carlo Felice, compromise il ruolo di Prospero ed ebbe ripercussioni su quello del figlio, condannato al confino. Amareggiato dagli eventi accaduti, ma non per questo intenzionato a rinunciare ai propri ideali, Cesare Balbo lasciò la vita pubblica per dedicarsi allo studio della storia, disciplina per la quale aveva già manifestato evidenti interessi.



Negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo pubblicò varie opere tra cui una Storia d’Italia in due volumi, una traduzione degli Annali di Tacito ed una Vita di Dante. La pubblicazione del Primato, scritto dall’amico Gioberti, spinse Balbo a prendere posizione. Nel 1844 pubblicò a Parigi Le Speranze d’Italia, opera con la quale illustrava ai lettori il programma dei moderati. Egli proponeva una federazione di Stati sotto la presidenza dei Savoia e non del Papa, la fine dell’influenza austriaca da raggiungere attraverso un accordo diplomatico che consentisse al governo di Vienna di rinunciare alle province italiane in favore di una sua espansione nei Balcani, il rispetto della religione, la creazione di una lega doganale in grado di migliorare gli scambi commerciali.



Scriveva Balbo a proposito della nuova compagine statale: «Le confederazioni sono l’ordinamento più conforme alla natura ed alla storia d’Italia.
L’Italia, come avverte molto bene il Gioberti, raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi così diversi tra sé, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa; ondeché fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie». Il successo dei suoi scritti consentì a Balbo di riprendere la vita politica. Nel novembre del 1847 fondò con Cavour Il Risorgimento, il giornale dei moderati che si batté in particolare per la concessione dello Statuto albertino e per l’unificazione italiana, da realizzarsi sotto la guida del Piemonte. Nel marzo del 1848 fu incaricato da Carlo Alberto di formare il nuovo governo, carica che mantenne fino al mese di luglio.



Dimessosi dalla presidenza del Consiglio a seguito della sconfitta di Custoza, ricoprì la funzione di deputato, schierandosi a difesa del potere temporale dei papi e contro la proposta del governo d’Azeglio per l’abolizione del foro ecclesiastico e l’incameramento dei beni della Chiesa da parte dello Stato. Prendendo la parola in aula disse che «non si può, non si deve mutare [un diritto], se non col consenso, con l’accordo di chi ne è materialmente in possesso». In un’altra occasione si oppose ad una proposta di legge sull’istituzione del matrimonio civile. Morì a Torino, città nella quale era nato, il 3 giugno 1853, all’età di sessantatre anni.
Fedele ai propri convincimenti, preferì lasciare il potere piuttosto che venir meno alla parola data.



Da cattolico liberale auspicò una proficua collaborazione tra l’autorità civile e quella religiosa, ricordando agli italiani come «sia necessità non trista, ma lieta, necessità che si congiunge con tutti i destini più lieti, più grandi della nostra patria;
che l’Italia, prescelta a sedia del capo, a centro della Cristianità, sia interessata non solamente alla indipendenza, ma alla dignità, allo splendore, alla potenza di quel capo; che non solamente l’albergarlo, ma il difenderlo e glorificarlo sia il gran destino d’Italia ne’secoli futuri».

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